Per quanto riguarda la biomeccanica, ogni materiale rimasto (libri, articoli, congressi e spettacoli) è inutile: essa resterà un mistero. Lo stesso Mejerchol’d si è sempre rifiutato di fissarne i fondamenti sulla carta, dicendo “quando morirò tutti si precipiteranno a frugare fra le mie carte; e cosa troveranno? Appunti e geroglifici incomprensibili”.
Eppure è possibile fare delle considerazioni sulla biomeccanica, utili per capirla e per capirne lo spirito: innanzitutto la biomeccanica non è un “sistema” di recitazione alla maniera di quello di Stanislavskij; si tratta invece di un allenamento globale dell’attore in funzione di un momento successivo che è quello della recitazione.
In secondo luogo, la biomeccanica non nasce negli anni ’20 (quando viene coniato il termine), ma affonda le sue radici nei primi esperimenti di Mejerchol’d presso lo Studio di via Borodinskaja fra il 1913 ed il 1917. All’interno di questo Studio si lavorara sul movimento, sulla “scienza del corpo”, fuori da qualsiasi motivazione psicologica di stampo Stanislavskijano ma mirando all’emozione teatrale. Quindi rapporto con lo spazio circostante, sottofondo ritmico-musicale, assoluta padronanza delle varie parti del corpo, studio dei metodi di recitazione delle grandi epoche storiche. Nascono qui i primi termini della futura biomeccanica: otkaz, gesto breve, opposto alla direzione del movimento in preparazione, impulso e controimpulso (la mano si trae indietro prima di colpire l’avversario).
Altra caratteristica del primo Studio di Mejerchol’d è l’attenzione alla gestualità degli attori orientali: nell’attore, secondo Mejerchol’d, si devono riunire tutti i modelli storici per ottenere una gestualità lontana dal quotidiano (extraquotidiana), libera dalle leggi della natura ma carica di autocontrollo e concentrazione assoluti.
Il termine “biomeccanica” nasce nel 1922, ed insieme al termine nasce anche la formula più celebre della biomeccanica: N = A1 + A2.
L’attore è l’animale: nei primissimi scritti di Mejerchol’d si sottolinea nell’attore la componente animale, di cui bisogna ritrovare l’armonia, il ritmo, l’istintiva scansione di scatti e pause; il nuovo attore lo si vuole far nascere dalla fusione fra l’uomo e la parte animale che è in lui.
Uno dei principi della biomeccanica ai quali Mejerchol’d rimane fedele è quello relativo all’attore nello spazio: una corretta reazione è subordinata ad una corretta disposizione del corpo nella spazio; l’importante è dunque scomporre i movimenti nelle tre fasi intenzione – esecuzione fisica – reazione psichica senza confonderle e senza anticipare la terza ma lasciandola manifestare dopo che la seconda abbia avuto esito.
Gli esercizi che Mejerchol’d utilizza nei suoi Studi non hanno nulla di eccezionale: “ginnastica scenica”, quindi tiro con l’arco, salto in alto, schiaffo, colpo di pugnale ecc. La corretta esecuzione di questi esercizi, di per se stessa, non ha alcun senso; il senso lo acquista quando l’attore, perfettamente padrone del movimento, lo inserisce in un ciclo più ampio che parte dall’intenzione e finisce con la reazione, un ciclo che tiene conto dello spazio, del tempo, del partner. Per questo ricostruire gli esercizi di biomeccanica è inutile: la biomeccanica come disciplina comincia quando finisce l’esercizio, comincia quando dall’esecuzione si passa al collegamento di tutto il movimento con l’intenzione, da cui nasce la reazione.
Ogni esercizio di biomeccanica aveva un accompagnamento musicale: non si trattava di un semplice accompagnamento musicale, bensì di opere di Chopin, Bach, Schubert, Rachmaninov ecc. Il movimento che diventa musicale è un movimento pieno di ritmo interiore, importantissimo per Mejercho’d, tant’è vero che ogni allievo aveva un’adeguata preparazione musicale.
La musica diviene strumento per trovare dentro di sé il ritmo del movimento proprio come avviene nel circo per gli acrobati: il sottofondo musicale non serve a creare l’atmosfera, bensì a scandire i movimenti ritmici degli acrobati: con un sottofondo musicale ben conosciuto il calcolo dei movimenti diventa in fallibile. Anche l’attore, quindi, acquista precisione: impara a calcolare il tempo in scena.
Secondo Mejerchol’d l’attore deve avere una caratteristica fondamentale: la riserva.
Egli non deve sprecare tutta la sua energia interiore in scena. Lo spettatore dovrà sempre avere l’impressione che l’attore possa fare qualcosa di più di quello che sta facendo, possa raggiungere livelli ancora più alti. Riserva come capacità di dosare la propria energia interiore. Non c’è parte del corpo – è il primo principio della biomeccanica – che non partecipi ad ogni movimento, anche minimo, e che non intervenga nella ricerca dell’equilibrio specifico a quel movimento. Tutta la biomeccanica si basa sul fatto che, se si muove la punta del naso, si muove tutto il corpo. E poi ogni organo va sviluppato, valorizzato. Il rapporto è un fattore centrale nella teoria mejercholdiana: rapporto del corpo con quello del proprio partner, rapporto del corpo con l’oggetto, rapporto dell’attore con il pubblico.
Pochi furono gli spettacoli costruttivisti di Mejerchol’d, pochissimi quelli in cui il lavoro biomeccanico affiora sulla scena. Le Cocu Magnifique (1922) fu il primo di questi, e rappresenta un evento nella storia teatrale sovietica: la costruzione scenica di L.Popola era fatta di livelli praticabili collegati fra loro da ponti, scale, scivoli, pedane; e sullos fondo ruote che giravano con una velocità direttamente proporzionale all’accendersi della gelosia di Bruno. Niente trucco, niente costumi: solo una tuta da lavoro, la celebre “prozodezda”, ed il trionfo dei loro corpi in movimento. Divennero in breve tempo un mito, anche se va detto che Mejerchol’d ebbe a disposizione un gruppo di attori assolutamente eccezionali. Attori eccezionali, certo, ma anche attori che, come voleva Mejerchol’d, sapevano pensare. Celebre è la frase del maestro russo: “a me non servono attori che sanno muoversi ma non sanno pensare”.
Biomeccanica: storia di un’idea pedagogica
In una Russia troppo legata alla sola immagine del Sistema di Stanislavskij, Mejerchol’d ed i suoi attori non lavoravano sull’interpretazione di una serie di personaggi, bensì lavoravano per affermare il senso di un nuovo metodo. Così, a partire da questa sua idea pedagogica, Mejerchol’d istituì la sua compagnia nel 1921: il sistema attorico di Mejerchol’d fu insegnato dal maestro stesso, e risulterà evidente in alcuni spettacoli nell’arco di 16 anni (da Le Cocu Magnifique in poi); l’obiettivo era quello di sviluppare nuove potenzialità dell’attore. Esso, pertanto, non affrontava gli stessi problemi di tutti gli attori durante la preparazione di un nuovo spettacolo: l’attore di Mejerchol’d doveva risolvere problemi basilari dell’arte dell’attore nel suo complesso, negando i principi della recitazione “interiore” e “l’immedesimazione”.
Le lunghe ricerche teoriche avevano condotto Mejerchol’d alla creazione di un intero sistema denominato “biomeccanica”; secondo questo sistema, il processo creativo si svolge tutto nella sfera del conscio e l’attore deve divenire “oggettivo”, cioè deve imparare a controllare i propri mezzi espressivi indipendentemente dal momento. La biomeccanica fornisce una vasta gamma di metodi per controllare le proprie possibilità creative. “Potrei calarmi nel personaggio a tal punto da soffrire e spargere lacrime, ma se nel contempo i miei mezzi espressivi non corrispondono al pensiero, allora le mie riviviscenze non sortiranno alcun effetto”: Mejerchol’d era convinto che una recitazione di tipo stanislavskijano non avrebbe permesso all’attore di comunicare al pubblico i propri sentimenti ed emozioni senza un adeguato controllo ed utilizzo dei propri mezzi corporei. Il controllo delle proprie azioni fisiche e psichiche erano per Mejerchol’d condizioni necessarie alla recitazione basata sulla biomeccanica. Per lui il pensiero è il punto di partenza del processo creativo.
La tecnica biomeccanica presuppone, innanzitutto, la capacità dell’attore di “analizzare” in ogni momento i propri movimenti per poi, sulla base di questa analisi, migliorare di prova in prova sia sotto il profilo dei movimenti fisici che sotto il profilo intellettuale. Secondo Mejerchol’d il pensiero dell’attore viene realizzato anzitutto plasticamente: prima viene il movimento, poi le parole, poi il coinvolgimento emotivo e quindi la comunicazione al pubblico. Pensiero – movimento – emozione – parola: così si potrebbe riassumere il processo creativo dell’attore biomeccanico; il movimento non è lo scopo del comportamento, ma come inizio del processo creativo dell’attore sulla scena. Solo dal movimento preciso può nascere un’emozione precisa ed una parola interiormente motivata. Era questa la tecnica che il maestro insegnava ai suoi attori, attraverso la biomeccanica che collegava il movimento con l’emozione e la parola. L’altra grande convinzione di Mejerchol’d risiede nel fatto che la ginnastica deve essere la materia principale anche se si pensa di mettere in scena tragedie che appartengono ad un altro teatro. Solo gli attori che possiedono il controllo dei movimenti possono accostarsi alla tragedia. Agli allievi veniva dato il compito di eseguire con una breve pantomima l’essenziale di una trama complessa, oppure un intero dramma.
La padronanza dei movimenti è l’elemento essenziale nella professione dell’attore. Tuttavia, anche il passo successivo all’azione fisica – quello emotivo – è fondamentale nel processo creativo di Mejerchol’d. Nel suo volume Sul Teatro del 1912 Mejerchol’d formula il principio fondamentale per la biomeccanica: reazione reciproca e coordinamento degli elementi plastici con la parola. Un esempio viene dal maestro stesso: “saltò su tutte le furie”; si può anche non saltare (violazione dell’indicazione scenica) ma infuriarsi (adempimento all’indicazione scenica). Si può non riuscire ad infuriarsi (violazione) ma a saltare (adempimento). In seguito Mejerchol’d si convinse che la formazione dell’attore doveva necessariamente giungere ad instaurare una relazione di causa ed effetto in cui “saltare” implicasse necessariamente infuriarsi e viceversa.
Mejerchol’d non metteva sullo stesso piano il mondo emotivo dell’attore e la riviviscenza del personaggio. In ogni caso, la tecnica dell’attore non ostacola mai l’affiorare del temperamento. Del resto per Mejerchol’d non esistevano nel personaggio emozioni prive di espressione formale: ancora prima che il regista elaborasse la biomeccanica, egli imponeva ai suoi attori una recitazione esteriore, e nel contempo li costringeva a giustificare interiormente quella esteriorità. Egli non era contrario alla recitazione carica di emotività, solo che considerava la riviviscenza solo uno dei tanti materiali nelle mani dell’attore; ed anch’essa, la sua importanza, dipendeva dalle capacità organizzative dell’attore. La condizione psicologica dell’attore può anche essere opposta al personaggio, perché nell’attore si riflette lo stato d’animo degli spettatori. La comunione, non solo materiale, fra sala e scena era quindi un aspetto indissolubile per il teatro mejercholdiano.
Nella biomeccanica il movimento è ciò che prepara la frase, la reazione, la valutazione, la battuta. Mejerchol’d trovava un fondamento di questo principio nella teoria psicologica di James: il regista faceva un esempio di “catena psicofisica della creazione dell’attore”. Devo rappresentare sulla scena un uomo che corre per la paura, spaventato dall’assalto di un cane: che cosa devo fare? Devo suscitare in me tutti i sentimenti di una persona spaventata dai latrati di un cane e poi correre via? No, non devo evocare nulla in me stesso prima del momento di mettermi a correre; ma nel momento in cui inizierò a correre, in me sorgeranno le vere sensazioni di una persona impaurita. E’ al movimento che Mejerchol’d subordina le emozioni, pur non negando che l’immaginazione dell’attore potesse contribuire a far sorgere le emozioni stesse. L’impulso gestuale, il movimento, rende però tangibile e visibile la condizione immaginata: ecco il segreto della biomeccanica.
Il ritmo è stato sempre centrale nella teoria di Mejerchol’d: fondamentale in questo senso furono i laboratori mirati allo sviluppo della sensibilità musicale dell’attore. Anche in questo caso il punto di riferimento obbligato fu il teatro orientale, in cui l’attore-danzatore si comporta sempre allo stesso modo in ogni situazione: i suoi sono sempre movimenti di danza, fondamentalmente ritmici; per Mejerchol’d, allora, il ritmo è alla base del movimento in tutte le sue manifestazioni: la biomeccanica si basava anche sullo sviluppo del senso ritmico dell’attore – ritmo del movimento, ritmo del pensiero, ritmo della parola ecc. Questo contribuiva a creare un corpo extraquotidiano proprio perché il ritmo non caratterizza ogni aspetto della vita quotidiana. Se extraquotidiano era il ritmo dell’attore, extraquotidiana era anche la struttura dei personaggi: i tratti oscuri, vaghi e neutri presenti nelle persone reali venivano scartati; il materiale tratto dalla vita quotidiana veniva rielaborato. Bastava cogliere il “tratto saliente” per rappresentare un personaggio, senza il bisogno di riprodurlo tale e quale. Questo perché Mejerchol’d applicava al teatro una legge generale dell’opera d’arte: è necessario che l’individualità dell’artista salti fuori. Per Mejerchol’d il protagonista dello spettacolo è l’attore che interpreta un personaggio, che lo mostra e lo osserva contemporaneamente.
Come abbiamo detto, per Mejerchol’d è importante la capacità di un contatto dell’attore con il suo pubblico. Quindi un altro elemento fondamentale dell’arte attorca è l’improvvisazione. Per l’attore mejercholdiano essa costituisce una delle basi del contatto col pubblico: la creazione dell’attore si differenzia da quella del regista e del drammaturgo perché l’attore crea in pubblico e può improvvisare sotto l’influsso che gli spettatori esercitano su di lui; nell’arte dell’attore, suggerisce Mejerchol’d, non tutto è previsto. Anzi, mediante l’improvvisazione, l’attore reagisce a tutte le esigenze del pubblico in sala. E’ interessante notare che nella concezione di Mejerchol’d l’improvvisazione è legata a quella parte della personalità dell’attore che rimane fuori dai confini del personaggio. Infatti in nessun caso deve esserci un rapporto fra stato emotivo dell’attore e quello del personaggio rappresentato. La linea emotiva della recitazione non è legata alle emozioni del personaggio, bensì a quelle dell’attore. Quindi è necessaria una “distanza” fra l’attore ed il suo personaggio, che permetta all’attore di evidenziare la sua posizione nei confronti del testo.Questa “distanza dal personaggio” diviene pian piano una teoria ben precisa, e deriva dal teatro popolare: le battute a parte, le strizzate d’occhio ai colleghi, la comunicazione agli spettatori, il prologo ecc. sono tutti espedienti tratti dalla cultura popolare.
La costante presenza della maschera per l’attore mejercholdiano è una legge basilare secondo la quale si sostiene una anti-immedesimazione necessaria. Quindi “il ruolo interpretato dall’attore è una maschera sul suo viso, non il suo viso”. Il sistema dell’emploi (questo il suo nome) chiama l’attore a rompere con la tradizione dell’interpretazione psicologica, concentrandosi sulla funzione delle azioni dei personaggi. Avvicinandosi al personaggio tramite il metodo dell’emploi permette all’attore di distaccarsi da ogni approccio naturalistico. Ma allora come si costruisce un personaggio tipicamente mejercholdiano? Tramite metodi puramente artistici. Non si arriva al personaggio partendo da se stessi e dal proprio mondo interiore, cosa che invece professava Stanislavskij.
Mejerchol’d voleva che l’esistenza scenica non riproducesse mai il comportamento della vita: il personaggio teatrale non è identificabile con l’uomo vero; le leggi della scena riorganizzano e trasformano radicalmente tutto il materiale umano e reale. L’attore non imita la vita quotidiana: si limita a trasmetterne il senso attraverso associazioni di immagini, attraverso la metafora che egli incarna. Quindi l’attore mejercholdiano è quanto più lontano si possa avere dalla recitazione “reale” di stampo stanislavskijano; non esistono leggi diverse dalla finzione, che regola ogni aspetto del lavoro teatrale. I personaggi di Mejerchol’d non rappresentano uomini, bensì costruzioni metaforiche. Diceva Ejzenstejn, allievo di Mejerchol’d, che nei giochi infantili è possibile notare due elementi: 1) l’imitazione dei grandi; 2) la fantasia. Anche gli attori si comportano come bambini: spiano e al contempo creano, osservano e deformano. Tutto, secondo Ejzenstejn, poteva essere osservato nelle performance degli attori orientali, dove le rappresentazioni si pongono agli antipodi della riproduzione della realtà quotidiana. Altro personaggio osservato per la sua capacità di trasfigurare il reale fu Charles Spencer Chaplin all’epoca dei primi film muti.
L’attore biomeccanico
Innanzitutto l’attore dovrà rivedere interamente i canoni del vecchio teatro, cercando di prendere a modello il lavoro di un operaio medio, soprattutto nella sua capacità di ripartire in modo adeguato il tempo di riposo ed il tempo lavorativo (che viene sfruttato al massimo). Esistono dei movimenti per sfruttare al massimo il tempo lavorativo: osserviamo un operaio medio:
1) vi è la totale assenza di movimenti superflui, improduttivi;
2) la ritmicità dei movimenti;
3) l’individuazione del giusto centro di gravità del proprio corpo;
4) la resistenza.
Il lavoro di un operaio esperto ricorda sempre la danza. Lo spettacolo di un individuo intento a lavorare nella maniera più giusta procura sempre un certo fascino e godimento: questo vale anche per l’attore del futuro. Anche nel campo dell’arte bisogna sempre preoccuparsi di organizzare il materiale, e l’intera creazione dell’artista deve diventare cosciente, scientifica. L’arte dell’attore, allora, consiste nell’organizzare il proprio materiale, cioè nella capacità di utilizzare in maniera giusta i mezzi espressivi del proprio corpo. L’attore, allo stesso tempo, é colui che organizza e ciò che viene organizzato (artista + materiale); la formula dell’attore allora sarà la seguente: N = A1 + A2 (N sta per Attore, A1 sta per “costruttore”, che organizza, e A2 sta per ciò che viene organizzato, il corpo, secondo la volontà di A1). Dall’attore si esige un certa economia dei mezzi espressivi affinché si possa assicurare la precisione dei movimenti che contribuiscono alla migliore realizzazione dell’intento. Il metodo della Taylorizzazione si addice al lavoro dell’attore proprio come si addice a qualsiasi altro lavoro dove si vuole raggiungere il massimo della produzione. La Taylorizzazione del teatro dovrà consentire di recitare in un’ora quanto normalmente si reciterebbe in almeno 4 ore; a tal fine l’attore deve necessariamente:
1) possedere una capacità innata di reattività (lo “stato di reattività” è analogo alla “condizione creativa” di Stanislavskij sul piano della funzione);
2) deve essere fisicamente dotato, con ottima vista e resistenza fisica, e sentire in ogni momento l’esatto centro di gravità del proprio corpo.
L’attore deve studiare la meccanica del proprio corpo. Ed il difetto principale di ogni attore contemporaneo è l’ignoranza dell’importanza delle leggi di biomeccanica. Una volta presa coscienza del proprio corpo, l’attore raggiunge lo stato di reattività che coinvolge il pubblico rendendo l’attore vivo ed interessante. A tal fine l’esercizio è importante, ma la ginnastica, le acrobazie, la danza, la scherma, la boxe, sono tutte materie utili che possono giovare solo se inserite come materie accessorie nel corso della biomeccanica, materia fondamentale ed indispensabile per ogni attore.
Una delle strade del processo creativo dell’attore, che caratterizza tutti gli studi e le scuole, è il training; gli esercizi hanno un fine che viene ben sintetizzato da Mejerchol’d: l’allenamento è per un attore ciò che per una ballerina sono gli esercizi di riscaldamento o quelli per rafforzare muscoli e spina dorsale: sono necessari per lo spettacolo ma non ne fanno parte. In questo senso va intesa la biomeccanica, che è un processo di formazione dell’attore e non una tecnica da mostrare al pubblico (ad eccezione dello spettacolo del ’22 Le Cocu Maqnifique). Per l’attore studiare i propri movimenti nello spazio fisico della scena, nel tempo (i teatri antichi) o nello spazio (teatri asiatici) è un modo per accumulare dati ed esperienze che lo rendono più completo, più efficace.
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